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07/Mag/2022

La retinoschisi (RS) è un processo degenerativo intra-retinico che inizia all’interno degli strati retinici, e precisamente strato plessiforme esterno e strato nucleare interno con accumulo di un liquido viscoso che separa la retina in due foglietti.

Per quanto la descrizione della patologia possa preoccupare e spaventare il paziente. si tratta comunque una condizione benigna, spesso bilaterale; nella maggior parte dei casi non richiede trattamenti ma solo monitoraggio.

La separazione dei due strati, il foglietto esterno e il foglietto interno, porta a perdita della funzione visiva peculiare della porzione di retina interessata, ma poiché il processo si sviluppa nella retina periferica, poco importante per la visione generale, il paziente affetto da RS non osserva il più delle volte variazioni della visione.

Accade non di rado infatti che pazienti che si presentano per una normale visita di routine senza apparenti problemi, scoprano di avere la patologia retinica.

Retinoschisi e distacco di retina

Nel 15% dei casi però si possono presentare rotture del foglietto esterno che possono portare a distacco di retina. In questo caso è il medico oculista specialista che, spiegati i rischi, consiglierà eventuale trattamento di barrage con argon laser di questi fori per ridurre al minimo il rischio di distacco di retina.

Il continuo espandersi della lesione è estremamente raro; questa infatti nella maggior parte dei casi resta confinata nella retina periferica, ma tuttavia può raggiungere la porzione posteriore dell’occhio chiamata “polo posteriore”. Per quest’ultima condizione non esiste ad oggi un trattamento ritenuto risolutivo del problema.

Retinoschisi miopica trattiva

Una condizione completamente diversa è quella invece rappresentata dalla retinoschisi miopica trattiva (MTM). Questo tipo di RS interessa gli occhi di paziente miopi, più frequentemente miopi elevati, e si caratterizza per la formazione di una membrana epiretinica al polo posteriore (simile a un pucker maculare) che determina una trazione tale da creare uno stiramento della retina che assomiglia ad una retinoschisi.

La differenza principale è che nella MTM la retina mantiene la funzione visiva, anche se ridotta rispetto al normale. Il trattamento della MTM deve essere valutato con lo specialista ed è in questo caso di tipo chirurgico. Consiste nella rimozione della membrana epiretinica che determina trazione in modo da consentire alla retina di poter tornare alla normale morfologia, anche se il successo dell’intervento non è completo in tutti i casi.

IMPLICAZIONI GENETICHE – retinoschisi genetica ereditaria X o XL

La retinoschisi legata all’X, o retinoschisi giovanile legata all’X (congenital X-linked retinoschisis (CXLRS) è ereditaria ad esordio precoce caratterizzata da scissione (schisi) degli strati retinici nella zona foveale o nella retina periferica. E’ caratterizzata da sottili spazi cistici disposti con pattern a strie radiali “a ruota di bicicletta”, meglio evidenti se esaminati con luce rosso-priva. Con il tempo le pieghe radiali diventano meno evidenti e si apprezza solo un’attenuazione del riflesso foveale. Solitamente si manifesta binocularmente, anche se con diverso grado di severità, questa patologia è causata da mutazioni nel gene RS1, che codifica per la retinoschisina, una proteina coinvolta nell’adesione intercellulare.

La prevalenza della retinoschisi è di circa 1 su 15.000 – 30.000; la maggior parte degli individui affetti sono maschi. Le donne portatrici sane non mostrano generalmente cambiamenti al fondo, sebbene vi siano rare segnalazioni di eterozigoti con segni clinici.

L’età di esordio della patologia è tra i 5 e i 10 anni con difficoltà di lettura. Meno frequentemente la malattia esordisce nell’infanzia con strabismo o nistagmo dovuti a un quadro di retinoschisi periferica avanzata, spesso associato a emorragie vitreali. Tuttavia, sono stati anche descritti segni clinici nei neonati già a partire dai 3 mesi di età. La retinoschisi XL è recessiva con gene designato RS1, ha una penetranza completa e espressività variabile.  E’ causata da una grande varietà di mutazioni (circa 220) del gene RS1, che codifica per una proteina di 224-amminoacidi chiamata retinoschisina, che è secreta dai fotorecettori, insieme ad altri componenti della retina interna ed esterna, tra cui cellule gangliari, cellule amacrine e cellule bipolari.  Questa proteina si trova in tutta la retina e si ritiene che sia coinvolta nel suo sviluppo.

Esami strumentali e Diagnosi

Per una corretta diagnosi questa particolare patologia occorre sottoporsi ad una approfondita visita oculistica con esami strumentali. Tra questi i più importanti sono la Tomografia a Coerenza Ottica (OCT) che mostra spesso grandi spazi cistici. Questi spazi cistici possono essere presenti in qualsiasi strato della retina e rivelare aree di schisi non visibili all’esame del fondo, inoltre tramite l’illuminazione rosso-priva ci si può aiutare a evidenziare l’area della schisi foveale.

Retinoschisi all'esame OCT

La Retinografia può aiutare per l’analisi del fondo oculare di un bambino o monitorare la progressione della patologia in pazienti adulti; l’Elettroretinogramma (ERG) risulta normale in occhi con schisi retinica isolata.


12/Apr/2022

Per curare realmente lo sdoppiamento della vista è necessario ricorrere alla chirurgia

PARESI DEL VI NERVO CRANICO: TRATTAMENTO CON LA TECNICA DI NISHIDA

Il nervo abducente o VI nervo cranico muove il muscolo retto laterale che è uno dei 6 muscoli che consente il movimento del bulbo oculare. La paralisi di questo nervo pertanto causa una esotropia (disallineamento dei due occhi) spesso considerevole con conseguente diplopia. (sdoppiamento della visione).

Le cause della patologia possono essere molteplici; da forme compressive a forme traumatiche o infiammatorie (aneurismi, neoplasie, neuro-blastomi), episodi ischemici dovuti a diabete o ipertensione cronica, forme de-mielizzanti e ipertensione endocranica.

Negli ultimi anni inoltre, visto l’utilizzo enormemente aumentato degli schermi di dimensioni ridotte, dovuto alla grandissima diffusione di smartphone e tablet, il sintomo dello sdoppiamento della visione, la diplopia appunto, è divenuto sempre più frequente; ciò è dovuto, non tanto alle patologie organiche sopra descritte, quanto al fatto che l’eccessivo uso di smartphone e computer costringe l’occhio a guardare a lungo un punto fisso.

La tecnica di Nishida risulta una soluzione chirurgica mini-invasiva per la risoluzione del disturbo di sdoppiamento della visione

Trattamento: la tecnica di Nishida

La tecnica di Nishida si applica nelle esotropie come nelle paralisi del VI nervo cranico; in questi casi l’occhio si adduce in modo notevole (tra 40 e 60 diottrie prismatiche) e consiste nello splittare il muscolo retto superiore e inferiore incrociandoli nella sclera a 10-12 micron dal linbus nei quadranti temporali superiore e inferiore con sutura 5/0 in poliestere.

muscoli retti ed obliqui dell’occhio

I muscoli retto superiore e inferiore vengono trasposti e suturati nella sclera; non quindi sull’inversione del retto laterale, ma in un punto medio, generando una forza abduttiva e preservando la loro capacità di movimento verticale.

Questa chirurgia deve essere associata ad una recessione del muscolo retto mediale se si vuole riuscire a correggere dalle 40 diottrie prismatiche o più, anche se non in tutte le terapie dello strabismo le variazioni possono essere di +/- 10 diottrie prismatiche rispetto alla situazione iniziale.

Cosa molto importante per il risultato migliore è che i punti siano messi, per una maggiore efficacia, sui muscoli retti a 8/10 mm rispetto all’inversione dei due muscoli; ciò permette di avere un maggiore effetto e di preservare i grandi vasi di ogni muscolo prevenendo l’ischemia del segmento mediano.


12/Apr/2022

Cheratite da Acanthamoeba: diagnosi, terapia, prevenzione e nuove frontiere di cura con le nano-particelle

La cheratite da Acanthamoeba è una grave infezione della cornea che può portare alla perdita permanente della vista. Il numero di pazienti a cui viene diagnosticata questa patologia è in costante aumento. In circa il 90% dei casi i soggetti più colpiti sono gli utilizzatori di lenti a contatto.

L’Acanthamoeba appartiene al genere “ameba a vita libera”.

L’ameba è il nome comune di un genere di protisti, organismi unicellulari, che hanno la caratteristica particolare di mutare continuamente forma a causa del loro citoplasma privo di scheletro. L’Acanthamoeba è una cellula piccola, di solito di lunghezza tra i 15 e 35 µm e forma da ovale a triangolare durante il movimento.

 Questi microrganismi sono stati isolati da fonti ambientali sia naturali che artificiali, tra cui acqua dolce e salata, suolo, aria, fontane cittadine e piscine. Possono causare un’infezione corneale progressiva e pericolosa per la vista nota come cheratite da Acanthamoeba.

Una gestione impropria delle lenti a contatto come lavarle in acqua di rubinetto o indossarle durante il nuoto può provocare la contaminazione con amebe che possono così essere facilmente trasmesse alla cornea. Le amebe inizialmente localizzate nella superficie dell’epitelio corneale invadono rapidamente lo stroma sottostante e si infiltrano nei nervi corneali, causando neuriti e necrosi.

L’infezione è unilaterale e si manifesta con sintomi non specifici come forte dolore agli occhi, visione offuscata e lacrimazione. Spesso la cheratite da Acanthamoeba viene confusa e diagnosticata erroneamente come un’infezione corneale batterica o virale il che si traduce in un ritardo nel trattamento adeguato e nell’evoluzione della patologia che può condurre anche alla cecità

La grande maggioranza dei casi di cheratite da acanthamoeba coinvolge portatori di lenti a contatto (LAC) e soggetti con una storia di trauma corneale con materiale organico. La diagnosi dell’infezione si basa sull‘identificazione microbiologica del parassita mediante visualizzazione diretta al microscopio e/o crescita all’esame colturale.

Particolare attenzione soprattutto dal punto di vista igienico è necessaria per i portatori di lenti a contatto

Terapie

Non esiste una terapia completamente efficace contro l’infezione. Gli approcci terapeutici raccomandati prevedono l’utilizzo di farmaci che provocano alterazioni nella membrana citoplasmatica e infine portano alla denaturazione del contenuto citoplasmatico delle cellule delle amebe. In alcuni casi si può utilizzare la neomicina, come agente antibatterico durante la fase iniziale della terapia.

Purtroppo però il trattamento prolungato con questi agenti è molto tossico per gli occhi e raramente porta al completo recupero del paziente. Pertanto ancora oggi la prevenzione è il fattore principale che limita il numero di infezioni, e lo stesso può dirsi per la diagnosi precoce che costituisce requisito essenziale per la risoluzione della patologia con i minori rischi per il paziente.

Nei casi resistenti alla terapia medica, l’unica soluzione rimane la cheratoplastica perforante terapeutica. In via sperimentale si può ricorrere al cross-linking corneale, ma non ci sono allo stato attuale sufficienti evidenze che il trattamento di cross-linking si efficace e privo di rischi.

Sono in fase di sviluppo anche nuove terapie che si basano sull’uso delle nanoparticelle che agiscono come agenti antimicrobici.

Negli ultimi anni si è osservato un rapido sviluppo delle nanotecnologie mediche. Oggi le nanoparticelle sono considerate nuovi potenziali agenti antimicrobici. Diversi studi hanno infatti dimostrato che agiscono contro molti batteri, virus, funghi e diverse specie di protozoi. Il loro meccanismo d’azione è ancora poco conosciuto. Studi recenti hanno evidenziato che le nanoparticelle penetrano e alterano la struttura della membrana cellulare, risultando efficaci nell’eliminazione del microrganismo responsabile dell’infezione.

 


04/Apr/2022

Cataratta secondaria o Fibrosi capsulare

La cataratta secondaria detta anche fibrosi capsulare è un processo che si manifesta nella quasi totalità delle persone che si sono sottoposte precedentemente all’intervento di cataratta.

In questi pazienti l’unica parte del vecchio cristallino che viene mantenuta in modo da potervi appoggiare il nuovo cristallino artificiale, cioè la capsula posteriore, va incontro ad un processo di progressiva fibrosi opacizzandosi gradualmente causando un nuovo annebbiamento della visione.

Essa può svilupparsi in un intervallo molto variabile compreso tra 3/6 mesi fino ad alcuni anni dopo l’intervento di cataratta. Contrariamente a quanto a volte è temuto dai pazienti, l’offuscamento visivo che si avverte non dipende dall’opacizzazione del cristallino artificiale impiantato, che rimane perfettamente trasparente per tutta la vita del paziente, ma esclusivamente dalla fibrosi della capsula posteriore sulla quale è posizionata la lente.

Il trattamento YAG laser con cui la patologia viene risolta nella stragrande maggioranza dei casi e che viene impropriamente descritta come “pulitura del cristallino artificiale”. In realtà agisce sulla capsula posteriore producendovi una piccola apertura che libera l’asse ottico dall’opacità e ripristina una visione perfettamente nitida.

Questo trattamento laser è veloce, indolore e viene effettuato ambulatorialmente; l’unico collirio che deve essere instillato alcuni minuti prima è un anestetico locale. Questo facilita il posizionamento di una lente a contatto sulla superficie della cornea garantendo l’assenza di qualsiasi sensazione di disagio per il paziente.

SINTOMI E DIAGNOSI

Solitamente i sintomi della cataratta secondaria sono facili da riconoscere.

A distanza di qualche mese o anno dall’intervento chirurgico di cataratta, il paziente può riferire una visione offuscata; la visione sembra tornare come prima dell’intervento. Oppure può avvertire, particolarmente durante le ore notturne, un effetto di diffrazione molto fastidioso quando si fissano le luci dei lampioni o i fari delle macchine che appaiono frastagliate, allungate e colorate.

La diagnosi è altrettanto semplice e veloce. Può essere effettuata già semplicemente osservando il paziente con lampada a fessura. Si può poi effettuare un esame OCT per valutare l’entità della fibrosi della capsula posteriore; a questo proposito è consigliabile intervenire sulla patologia il prima possibile per evitare che l’aumento del tessuto fibrotico renda necessario l’utilizzo di più energia da parte del laser per effettuare un’incisione più importante e causare maggior fastidio per il paziente.

 

TERAPIA DI ULTIMA GENERAZIONE

Al fine di ridurre al minimo gli effetti collaterali e le eventuali complicanze e ottimizzare la sicurezza del trattamento l’ultima frontiera della tecnologia in questo campo. Si tratta di un innovativo laser YAG a nanosecondi che emette una radiazione luminosa della durata di una frazione di miliardesimi di secondo.

Questa peculiare e unica caratteristica rende quasi impossibile la propagazione dell’onda d’urto emessa dal laser eliminando il possibile conseguente “effetto domino”, caratterizzato dalla trasmissione dell’energia dalla capsula posteriore attraverso il corpo vitreo fino alla retina. Ciò riduce praticamente a zero il rischio di possibili complicanze il che risulta particolarmente utile in tutti i pazienti, ma si rende necessario nei pazienti che già presentano altre patologie retiniche quali l’edema maculare diabetico, l’edema maculare cistoide, il pucker maculare, il foro maculare lamellare, la trazione vitreomaculare (VMT) e altre patologie che potrebbero aggravarsi con l’utilizzo di un convenzionale laser YAG.

 


01/Mar/2022

La malattia di Lyme può coinvolgere, in tutte le fasi, anche gli occhi. Il primo sintomo è l’arrossamento oculare (congiuntivite), successivamente tutte le altre parti dell’occhio possono essere coinvolte dallo sviluppo della malattia.

La malattia di Lyme è un’infezione provocata dal batterio Borrelia burgdorferi,

che si trova comunemente in animali come topi e cervi e trasmessa dalle zecche Ixodes che possono infettarsi con i batteri quando mordono un animale infetto, per poi trasmetterlo ad una persona attraverso un morso successivo.

La zecca portatrice della patologia

Le zecche sono parassiti che vivono normalmente in mezzo all’erba e agli arbusti, pronti ad ancorarsi saldamente a un animale ospite non appena se ne presenti l’occasione; questi artropodi sono minuti e difficili da vedere, le più piccole e le più giovani hanno la stessa dimensione di un seme.

Il primo sintomo della malattia consiste di solito un’eruzione cutanea di una caratteristica forma a bersaglio, che tuttavia non sempre si manifesta; con la diffusione dell’infezione al resto del corpo compaiono: febbre, mal di testa, diffusi dolori muscolari, articolari ed ossei, rigidità del collo, stanchezza e astenia.

Aree a rischio per contrarre la sindrome di Lyme

La maggior parte dei casi di malattia di Lyme segnalati in Italia riguarda soprattutto il Carso, il Trentino e la Liguria, ma in minor quantità è presente anche in altre regioni.

Sintomi e diagnosi

La malattia di Lyme può interessare la pelle, le articolazioni, il sistema nervoso ed altri apparati, ma l’entità è variabile; il sintomo più conosciuto della malattia di Lyme è l’eruzione cutanea a forma di bersaglio; si tratta di uno sfogo così caratteristico che permette in genere una diagnosi immediata, senza ulteriore necessità di esami del sangue.

eruzione cutanea a “forma di bersaglio” tipica della sindrome di Lyme

Poiché l’eruzione può scomparire rapidamente, può essere opportuno fotografarla in modo che lo specialista possa condurre la corretta diagnosi

I sintomi della malattia di Lyme si presentano in tre stadi, sebbene non tutti i pazienti li attraversino tutti: il primo sintomo dell’infezione è l’eruzione di forma circolare, chiamata erythema migrans che appare entro 1-2 settimane dall’infezione, ma si può manifestare fino a 30 dopo giorni dal morso della zecca. Anche se questo sfogo è considerato tipico della malattia di Lyme, molti pazienti non lo presentano o può essere scambiata per un livido.

Accanto all’eruzione cutanea, il paziente potrebbe accusare sintomi simili a quelli influenzali come linfonodi ingrossati, affaticamento, stanchezza, mal di testa e dolori muscolari.

L’ultimo stadio della malattia di Lyme potrebbe presentarsi se la malattia non viene diagnosticata tempestivamente o è trattata in modo inappropriato. Sintomi successivi della malattia di Lyme possono insorgere in qualsiasi momento nell’arco di un paio di settimane ad anni dopo il morso infettivo di una zecca e comprendono l’artrosi, localizzata spesso alle ginocchia e, soprattutto negli adulti, deterioramento cognitivo, oltre ad interessare il cuore.

Per confermare la diagnosi malattia di Lyme i test più comuni sono quelli sierologici che identificano gli anticorpi contro i batteri che causano la malattia. Viene prima effettuato un test ad elevata sensibilità (ELISA) che, se positivo o dubbio, viene integrato con un test ad elevata specificità (immunoblot). Lo stesso esame può essere ripetuto anche tramite analisi del liquor.


01/Mar/2022

La Crioglobulinemia è una forma di vasculite che si caratterizza per la presenza nel sangue di proteine, dette crioglobuline, che, al di sotto dei 37 °C, formano un ammasso solido e biancastro, per poi ridisciogliersi una volta raggiunta la normale temperatura corporea.

Una delle patologie associate a questo stato può essere la neuropatia ottica ischemica

La patologia di natura autoimmune è caratterizzata dalla presenza nel siero del paziente affetto di autoanticorpi e antigeni che si legano tra di loro alle basse temperature determinando potenzialmente danno organico. A seconda della tipologia degli autoanticorpi è possibile distinguere tre tipi di crioglobulinemia: crioglobulinemia tipo I (costituita da immunoglobuline monoclonali di un unico isotipo), crioglobulinemia tipo II (autoantigene costituito da un autoantigene monoclonale in genere IgM e da autoanticorpi IgG policlonali) e crioglobulinemia tipo III (policlonalità sia di autoantigene più spesso IgM che di autoanticorpo IgG).

Le cause possono essere svariate:

La crioglobulinemia tipo I è in genere associata a malattie ematologiche quali mieloma o macroglobulinemia di Waldenstrom; quelle tipo II e tipo III definiscono la cosiddetta crioglobulimemia mista, di interesse immuno-reumatologico.

La forma mista tipo II è molto frequentemente associata e indotta dal virus dell’epatite C (HCV), mentre quella mista tipo III può essere associata anche ad altre malattie autoimmuni (es. artrite reumatoide, lupus eritematoso sistemico).

Sintomi

Il quadro clinico della crioglobulinemia mista è eterogeneo: la manifestazione più frequente è a carico della cute e si manifesta con porpora vasculitica prevalentemente agli arti inferiori fino a casi di ulcera e/o necrosi delle regioni colpite e con fenomeno di Raynaud (pallore e/o eritrocianosi (dita bianche e unghie bluastre) delle estremità di dita mani e piedi in risposta a stimoli quali ad es. le basse temperature)

Possono essere colpiti da sintomatologia anche il sistema muscolo-scheletrico (artriti, miositi), il sistema nervoso periferico (neuropatie periferiche), il sistema nervoso centrale (vasculite cerebrale, ischemia cerebrale), l’apparato cardiovascolare (lesioni ischemiche, vasculitiche, insufficienza cardiaca), il rene (glomerulonefrite). In questa sede ci interessa il fatto che il paziente affetto da crioglobulinemia può manifestare neuropatia ottica ischemica alla quale deve essere associato opportuno trattamento per preservare, per quanto possibile, il visus del paziente.

Diagnosi

La diagnosi di crioglobulinemia mista è basata sulla coesistenza di sintomatologia tipica e rilievo e risultati di esami di laboratorio di crioglobulinemia, associata a infezione da HCV e/o ad altre malattie autoimmuni.

La prognosi della crioglobulinemia mista è tipicamente eterogenea, variabile da forme lievi a forme di diversa gravità a seconda del grado di coinvolgimento sistemico e condizionata dalla patologia coesistente (es. epatite cronica C, LES, artrite reumatoide)

Cure e Trattamenti

Le forme lievi di crioglobulinemia mista sono trattate con farmaci antinfiammatori. La crioglobulinemia mista associata ad epatite cronica C si giova di trattamento antivirale anti HCV.

Le forme gravi e o resistenti ai trattamenti sopra riportati necessitano della prescrizione di farmaci immunosoppressori.


16/Feb/2022

Il glioma del nervo ottico (astrocitoma di basso grado) è un tumore che appare sulla struttura che trasporta l’input visivo dall’occhio al cervello (astrociti del nervo ottico).

Generalmente il glioma nelle sue forme specialmente se riscontrate nei bambini piccoli, à benigno e facilmente curabile. Alcuni tumori negli adulti, tuttavia, evolvono rapidamente in cancerosi, crescendo in modo aggressivo e diffondendosi a altre parti del cervello e anche ad altri organi.

Il glioma del nervo ottico in entrambe le sue forme può provocare la perdita parziale o totale della vista, nonché mal di testa e contrazioni oculari.

STUDI SCIENTIFICI e CONNESSIONI GENETICHE

Ancora oggi non si comprende pienamente il motivo per cui questi gliomi del nervo ottico compaiano. Alcuni studi suggeriscono che la genetica giochi un ruolo nel loro sviluppo, poiché molti pazienti hanno storie familiari di tumori del tessuto nervoso.

Glioma e Neurofibromatosi di tipo 1

La prestigiosa rivista Cancers ha recentemente pubblicato uno studio relativo alle più moderne conoscenze sulle principali problematiche correlate al glioma del nervo ottico correlato alla Neurofibromatosi di tipo 1.

Tale articolo che ha visto coinvolti i diversi team di ricerca italiani e stranieri; partendo da un riesame della letteratura sull’argomento, sono state esaminate le attuali conoscenze relative al glioma delle vie ottiche evidenziando che questo tumore del sistema nervoso centrale colpisce fino al 20% dei pazienti affetti da neurofibromatosi. Vengono prese in esame la patogenesi, le attuali metodiche diagnostiche, la prognosi e le possibilità di trattamento di questi tumori, che possono provocare una riduzione anche molto importante della vista come anche diversi disturbi neurologici.

Fondamentalmente sono state esaminate le correlazioni genetiche che potranno un giorno consentire di prevedere quali pazienti siano a maggiore rischio di sviluppare tale neoplasia; ciò può portare alla messa a punto di protocolli di screening che permettano l’identificazione precoce del tumore anche in quei pazienti che non presentano sintomi. In questi casi, l’impiego della risonanza magnetica per la caratterizzazione delle lesioni a carico del sistema nervoso centrale e gli esami svolti dall’oculista specialista hanno un ruolo determinante nella diagnosi precoce e nel follow-up in caso di progressione della malattia.

Per quanto riguarda la terapia, accanto alla chemioterapia già in uso, si pone l’accento su alcuni nuovi promettenti farmaci, tuttora in fase di sperimentazione, capaci di interferire con i segnali biologici responsabili della crescita di questi tumori, che nelle prime fasi di sviluppo farmacologico hanno mostrato risultati promettenti, in particolare alcuni specifici inibitori di MEK-1/2.

Il lavoro citato ha analizzato il glioma del nervo ottico da un’ampia prospettiva multidisciplinare, che ha coinvolto numerose figure professionali dedicate alla cura del paziente e alla ricerca in tale ambito, e che mira ad una più completa comprensione dell’ originr e del comportamento di questi tumori come punto di partenza per lo sviluppo di nuove terapie con la speranza che possano avere un impatto significativo sulla vita dei pazienti.

SINTOMATOLOGIA

La maggior parte di questi tumori di natura benigna cresce molto lentamente e potrebbe non causare alcun sintomo fisico per diversi mesi o anni. È possibile che un bambino abbia gliomi su ciascun occhio, sebbene la maggior parte dei pazienti abbia problemi singolari. Le escrescenze maligne invece tendono a svilupparsi rapidamente, diventando cancerose e iniziando a diffondersi entro pochi mesi dal loro inizio.

È probabile che un individuo che soffre di un glioma del nervo ottico si renda conto di un certo grado di compromissione della vista con diminuzione importante del visus. La perdita della vista periferica è più comune, ma un glioma avanzato può interessare tutti gli aspetti della vista. A seconda della pressione esercitata dal tumore sul nervo ottico, l’occhio interessato può sporgere verso l’esterno o contrarsi in modo incontrollabile. Alcuni pazienti manifestano sintomi generalizzati di affaticamento, mal di testa, nausea e deterioramento cognitivo.

Quando si sospetta un glioma del nervo ottico, il paziente deve essere indirizzato da un neurologo che può eseguire scansioni di tomografia computerizzata (TC) e test di risonanza magnetica (MRI) sugli occhi e sul cervello, alla ricerca di segni di masse insolite e cicatrici.

Una volta scoperto un tumore, si può scegliere di estrarre un piccolo campione di tessuto per analisi di laboratorio per rivelare se la massa è cancerosa, benigna o segno di un’altra patologia cerebrale più grave.

TRATTAMENTO

I tumori piccoli e benigni possono spesso essere rimossi chirurgicamente, anche se potrebbe essere necessario trattare una massa cancerosa con una combinazione di chemioterapia e radiazioni.

La chirurgia di solito può essere eseguita su un piccolo glioma del nervo ottico per asportare la massa e alleviare la pressione sul nervo. Se l’intervento chirurgico non ha successo o il cancro ha già iniziato a diffondersi, un paziente potrebbe dover sottoporsi a diversi cicli di radioterapia o chemioterapia.

Ai pazienti vengono in genere prescritti farmaci antidolorifici e viene chiesto loro di riposare gli occhi il più possibile durante il recupero. Il trattamento per i tumori benigni spesso porta al completo recupero della vista, anche se è probabile che i problemi maligni si traducano in una perdita permanente della vista.

 

 


12/Gen/2022

Astrocitoma: tumore benigno a carico del sistema nervoso che si riscontra spesso in età pediatrica

Possono interessare anche il nervo ottico con effetti sul visus

Un astrocitoma è un tumore del sistema nervoso centrale e fa parte di un gruppo di tumori chiamati gliomi. Il sistema nervoso centrale è composto dai neuroni, cellule che ricevono, elaborano e trasmettono gli impulsi nervosi, e da cellule di supporto: le cellule gliali. Esistono quattro tipi di cellule gliali: gli astrociti, gli oligodendrociti, le cellule ependimali e le cellule della microglia. Gli astrociti, che sono le più abbondanti di numero, prendono questo nome dalla loro caratteristica forma “a stella”.

La loro funzione è quella di fornire sostegno e nutrimento ai neuroni; esse intervengono nella riparazione del tessuto nervoso. Può però accadere che una cellula gliale sana inizi a moltiplicarsi in modo incontrollato dando origine ad una forma tumorale detta glioma. Se la cellula in questione è un astrocita il tumore che si forma è detto astrocitoma.

Gli astrocitomi pilocitici costituiscono il più comune tumore benigno che può essere riscontrato nei pazienti pediatrici; questo gruppo di tumori include la maggior parte degli astrocitomi cerebellari, una regione nella porzione più inferiore del cervello che controlla i movimenti e l’ equilibrio; gliomi del nervo ottico, tumori che originano dalle cellule di supporto del nervo ottico; e diversi altri tipi di tumori benigni.

Dal momento che la maggior parte degli astrocitomi pilocitici sono tumori cistici a lenta crescita che non tendono a diffondere ad altre parti del corpo, la prognosi dei pazienti pediatrici trattati per questa patologia è molto buona se non ottima.

Sintomi

Gli astrocitomi pilocitici possono causare cefalea, nausea, vomito, che di norma sono il risultato di uno stato di aumentata pressione all’interno del cranio. Inoltre, a seconda della loro localizzazione, questi tumori possono causare altri sintomi: un tumore a carico del cervelletto, può causare debolezza, difficoltà alla deambulazione e incoordinazione, mentre i gliomi a carico del nervo ottico possono causare calo del visus sino alla perdita dello stesso e protrusione del bulbo oculare. Disturbi più rari e severi, possono includere crisi convulsive, disturbi a carico del linguaggio, del comportamento e dell’umore oltre che disturbi a carico della memoria.

Diagnosi

Le indagini diagnostiche per immagini tramite mezzi di contrasto sono una componente essenziale nella diagnosi degli atrocitomi pilocitici. La Risonanza Magnetica e la TC sono utilizzati per fornire dettagli di immagine del tumore e delle strutture ad esso vicine. In considerazione della localizzazione del tumore, si può scegliere il più delle volte di utilizzare la Risonanza Magnetica.

Trattamento

Dal momento che l’astrocitoma pilocitico è il tumore cerebrale più benigno nella popolazione pediatrica, alcuni possono essere tenuti sotto controllo periodico con RM e non essere sottoposti a trattamento neurochirurgico.

Se il tumore subisce modifiche, il trattamento può comunque divenire necessario. Se questo si verifica, il tumore viene di solito rimosso chirurgicamente o, in caso di tumori difficili da raggiungere, trattato con radioterapia. La rimozione neurochirurgica di un astrocitoma pilocitico fornisce praticamente sempre una guarigione. Il successivo trattamento radioterapico, a causa dei possibili effetti avversi, viene di norma utilizzato raramente e comunque solo nei casi di rimozione non completa.

In aggiunta, alcuni tumori di dimensioni più ridotte che possono essere difficili da raggiungere, possono essere oggi trattati efficacemente mediante la radiochirurgia stereotassica, che utilizza un fascio di radiazioni ad elevatissima precisione che coinvolge direttamente le cellule tumorali risparmiando il tessuto cerebrale sano circostante; ciò spesso accade in caso di astrocitoma localizzato nel nervo ottico.


07/Dic/2021

Il melanoma oculare è un tumore raro che si sviluppa dai melanociti, cellule presenti in alcune parti dell’occhio. Nei casi di melanoma oculare è opportuno innanzitutto distinguere tra tumore primario, ovvero che ha origine direttamente dalle cellule dell’occhio, e tumore secondario, ovvero metastasi di altri tumori che hanno raggiunto l’occhio.

I Melanomi oculari primitivi dell’adulto più frequenti sono quelli che originano dall’uvea, dove sono presenti le cellule che producono melanina. Rappresentano il 2% di tutti i tumori oculari e si dividono in melanomi uveali:

  • della Coroide (85% dei casi)
  • dei Corpi Ciliari (10% dei casi)
  • dell’Iride (5% dei casi)

Cause

Le cause dei Melanomi oculari sono in gran parte sconosciute, ma pelle e occhi chiari sono i fattori comuni più rilevati nei pazienti con melanoma intraoculare. Anche alcune condizioni ereditarie possono influire sulla comparsa di melanomi oculari, come ad esempio:

  • Sindrome del Nevo Displastico
  • Melanocitosi Oculodermica (o Nevo di Ota)

Inoltre sono in fase di valutazione alcuni fattori di rischio che possono favorire l’insorgenza di questo tipo di tumore, come ad esempio:

  • Eccessiva esposizione al sole, in particolare ai raggi UVA e UVB
  • Contatto con sostanze chimiche potenzialmente nocive
melanoma oculare ed eccessiva esposizione al sole

Sintomi

Il Melanoma oculare è spesso asintomatico: i sintomi, che interessano la vista, compaiono talvolta quando la malattia è già in fase avanzata. Tra questi è possibile riscontrare:

  • Vista offuscata
  • Visione doppia
  • Comparsa di macchie nere
  • Lampi di luce all’interno del campo visivo
  • Riduzione del campo visivo
  • Improvvisa perdita della vista
  • Presenza di una macchia scura all’interno dell’iride
  • Cambiamento di dimensione e/o di forma della pupilla
  • Cambiamento della posizione dell’occhio e/o del suo modo di muoversi
  • Presenza di un’area particolarmente vascolarizzata
  • Dolore (molto raramente)

I sintomi del Melanoma oculare sono simili ad altre patologie per cui alla comparsa dei sintomi è necessaria una visita oftalmologica per valutarne la natura.

occhio affetto da melanoma dell’iride

La diagnosi di Melanoma agli occhi necessita di una visita specialistica oftalmologica da parte di un oculista specialista, la biopsia invece viene utilizzata molto raramente per scongiurare il rischio di danneggiamento dell’occhio.

Una volta diagnosticato il melanoma oculare è necessario effettuare altri esami volti a verificare se il tumore si è diffuso in altre zone dell’organismo, pertanto sarà necessario effettuare ulteriori indagini (radiografie, tomografie computerizzate, risonanze magnetiche)

Il melanoma oculare viene classificato utilizzando la classificazione proposta dal Collaborative Ocular Melanoma Study Group (COMS) o  quella proposta dall‘ AJCC (settima edizione) che prende in considerazione spessore, diametro maggiore del tumore associato ad eventuale estensione del tumore in altre sedi oculari.

Trattamento dei Melanomi oculari

Il trattamento dei melanomi oculari dipende da una serie di fattori come la sede del tumore, lo stadio della malattia e le condizioni del paziente. Non è raro inoltre che il trattamento possa comprendere più di un’opzione terapeutica.

La chirurgia è ad oggi una scelta meno diffusa rispetto al passato, mentre la radioterapia è un trattamento che viene spesso utilizzato grazie alla sua capacità di distruzione delle cellule tumorali ad estrema precisione, limitando eventuali danni alla vista.

L‘adroterapia con protoni ha guadagnato un largo consenso nella comunità scientifica poiché è stato dimostrato che i risultati terapeutici sono sovrapponibili a quelli ottenuti con l’enucleazione (cioè l’asportazione del bulbo oculare e la sua sostituzione con una protesi bio-compatibile che riproduce le caratteristiche dell’occhio non malato). Il controllo locale con preservazione d’organo è il più importante obiettivo del trattamento con protoni.

L’impiego della protonterapia nel trattamento del melanoma oculare trova il suo razionale nella possibilità di erogare una dose curativa al tumore preservando al meglio i tessuti limitrofi. I risultati in termini di controllo locale di malattia, disponibili in letteratura, hanno dimostrato un’evidente superiorità di questa tecnica rispetto alle forme convenzionali di radioterapia con fotoni.

Pazienti con melanomi di dimensioni medio-piccole possono essere curati con una terapia conservativa che preserva la visione dell’occhio. Dalla casistica di alcuni centri specializzati emerge che la conservazione d’organo è stata ottenuta in più del 90% dei pazienti trattati, e in questi pazienti la funzione visiva dell’occhio trattato è assicurata in più del 70% dei casi


19/Nov/2021

Ancora sulla malattie rare della retina: la distrofia dei coni

La distrofia dei coni e dei bastoncelli (CRD) è una malattia ereditaria rara e isolata della retina, di origine genetica, caratterizzata dalla degenerazione primaria dei coni, associata ad un marcato interessamento secondario dei bastoncelli, con aspetto variabile del fondo oculare. I segni clinici caratteristici comprendono la riduzione dell’acuità visiva, lo scotoma centrale, la fotofobia e l’alterazione della visione dei colori, seguiti dalla cecità notturna e dalla perdita della visione periferica.

La patologia rientra nell’ambito delle distrofie retiniche ereditarie ed ha una incidenza, soprattutto in Europa, di 1 individuo ogni 40.000 Dal punto di vista genetico la patologia può presentarsi nella forma autosomica dominante, autosomica recessiva o recessiva legata al cromosoma X

La CRD è caratterizzata da un interessamento primario dei coni è, più raramente, dalla perdita sia dei coni sia dei bastoncelli, il che spiega i principali sintomi della malattia: riduzione dell’acuità visiva, anomalie della visione dei colori, fotofobia e riduzione della sensibilità nella parte centrale del campo visivo, seguite dalla perdita progressiva della visione periferica e dalla cecità notturna.

L’aspetto del fondo dell’occhio è variabile:

da normale nelle prime fasi della malattia (si nota solo un lieve pallore del nervo ottico sul lato temporale, la migrazione e l’atrofia del pigmento maculare o una maculopatia ad occhio di bue), fino, con la progressione della malattia, all’atrofia dell’epitelio pigmentato retinico periferico, alla riduzione delle arteriole e al pallore del disco ottico. In genere il decorso clinico di questa sindrome è più grave e rapido rispetto ad altre distrofie retiniche congenite ed evolve più precocemente nella cecità e nella disabilità.

La diagnosi differenziale si pone con le altre malattie ereditarie dei coni (acromatopsia e sindromi collegate da disfunzione dei coni e malattia di Stargardt), con la distrofia dei bastoncelli e dei coni, nota anche come retinite pigmentosa, che differisce per la sequenza con la quale vengono interessati i fotorecettori (inizialmente i fotorecettori dei bastoncelli e solo successivamente quelli dei coni).

così si presenta all’esame OCT un paziente affetto da distrofia dei coni

Non esistono cure efficaci per la cura della malattia se non terapie che cercano di bloccarne o almeno rallentarne l’avanzamento; un orizzonte possibile di cura, come per molte malattie rare a trasmissione ereditaria è costituito dalla terapia genica attualmente in fase di sperimentazione.

 



Dr. Carmine Ciccarini

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